Essere senza costellazione. L’ecce homo XXI di Franco Ionda
Gianmaria Nerli
Le idee stanno alle cose come le costellazioni alle stelle Walter Benjamin
Che le nostre città nascondano le stelle alla vista non è certo un problema degli artisti, come la luna ha smesso da tempo di essere un problema dei poeti. Dalla luna ci si aspetta ormai di estrarre elio, idrogeno, ossigeno per quando non ne avremo più, e dalle stelle semplicemente non ci si aspetta più niente. Le luci delle nostre metropoli ci hanno abituato a guardare verso il basso o dritto, davanti a noi, per non perdere la strada o per non perdersi tra le strade innumerevoli; e hanno ricacciato il buio e l’oscurità dove ormai quasi nessuno le cerca. Eppure era questa oscurità a permettere uno sguardo verso l’alto, o al contrario, verso l’abisso sprofondato nei nostri occhi; è nell’oscurità che le stelle compongono i loro disegni, che descrivono costellazioni, che ci promettono una via. È al riparo dal bagliore che esiste lo spazio indefinito del pensiero e del pensare. E tuttavia è proprio questo bagliore che dietro di sé nasconde non il buio, ma una tenebra irriconoscibile perché ormai assorbita nella luce; e il brillare intermittente delle stelle non porta più con sé nessuna forma, nessun segreto, nessuna attesa; è un brillare stanco, che sotto i nostri sguardi si fa opaco e residuale. «Tempi beati», scriveva György Lukács, «quelli in cui la volta stellata è la mappa delle vie praticabili e da percorrere, e le cui strade illumina la luce delle stelle […]. Sconfinato è il mondo, e tuttavia non più della propria casa, giacché il fuoco che arde nell’animo ha la stessa sostanza delle stelle».[1] Da quando non è più la volta del cielo a illuminare la notte degli uomini e le stelle più non suggeriscono il disegno dei destini umani, ecco che anche i linguaggi dell’arte e l’esperienza sensibile del mondo cessano di rischiararsi a vicenda; smettono di intrecciare quel discorso che tanto alimenta e seduce il nostro pensiero. È a questo discorso che alludono le stelle decapitate di Franco Ionda, tutte orientate a illuminare in qualche modo questo rapporto interrotto; in un tentativo che è ormai da molto tempo il carattere specifico della grande arte, costretta a ricreare di volta in volta il proprio sistema di stelle, il proprio cosmo, per riuscire a articolare un discorso nella pienezza di un senso. Il segreto di Ionda è allora di spingerci a guardare questo cosmo, di forzarci a alzare lo sguardo di nuovo verso l’alto; anche se solo per scoprire – per non scordarsi – che «adesso il cielo è in terra, si è rovesciato e le stelle si possono toccare».[2]
E tuttavia l’artista sa bene che poter toccare le stelle è insieme un atto di fiducia e di melanconia: è la coscienza che il cielo di carta di Mattia Pascal si è definitivamente dissolto, e insieme la consapevolezza di un destino mutilo e ormai del tutto reificato, condannato alla pura operatività; ma è anche la consapevolezza che la mutilazione è nella vita, non nell’arte. La tragedia è nelle cose, ci dice Ionda, non nell’espressione. La sua arte non vive il dolore, lo riconosce, lo pensa, lo riconduce alla socialità dell’esperienza, e quindi propriamente lo trasforma in discorso, in agire in un certo senso politico. La tragedia è riconosciuta e ricollocata fuori dal linguaggio, e insieme riconsegnata al discorso e al destino di un pur smarrito zoon politikon. L’arte compie tutto il suo percorso e ritorna all’uomo, torna a tentare di leggere, con i propri linguaggi (e non per essi), il destino di chi vive spaesato l’inizio di questo XXI secolo. È questa la freschezza immediata che suscita il linguaggio di Ionda, l’arrivare sempre un po’ prima o un po’ dopo dell’arte, dei sui protocolli, dei suoi rituali: queste opere ci raccontano sempre qualcosa di noi e del nostro mondo, prima ancora di raccontarci di sé o del proprio ossessivo destino. «La menzogna non è nel discorso, è nelle cose»,[3] ha scritto Italo Calvino. Ecco, questo è il senso primo dell’arte di Ionda, riallacciare il discorso alle cose, l’esperienza all’esperienza, la menzogna alla menzogna; pur sapendo che le cose non sono mai cose, che non sono mai come sono, e che per afferrarle bisogna sempre prenderle un po’ di traverso, un po’ nasconderle un po’ mostrarle. È in questa architettura di cose e di discorsi, in questo montaggio di esperienza e di pensiero che si esprime la forza cosmologica della poetica di Ionda.
Del resto le stelle decapitate nascono dall’incontro con Majakovskij, e dalla sua invettiva verso un cosmo liberato da antiche autorità ma anche sciolto da ogni vincolo umano: «guardate:/ hanno di nuovo decapitato le stelle/ e insanguinato il cielo, come un mattatoio!»[4] È lo smarrimento dei nostri corpi che non trovano più dimensione, orizzonte, orientamento, che interessa tanto al poeta che all’artista; è lo smarrimento del pensiero che non riesce più a elaborare spazi, forme, tempi, dinamiche di accesso e interazione per il corpo umano che incatena Ionda e lo spinge a ipotizzare una mappa, a catturare un riflesso di questo cielo rovesciato. E infatti, è la risposta allo smarrimento la vera molla intellettuale di queste composizioni, che si muovono tra pittura, scultura, tecnica di riproduzione seriale; e che sembra vogliano contenere e assemblare le molteplici dimensioni del mondo sensibile, dei suoi discorsi, delle sue ideologie, di quelle stesse idiosincrasie d’artista che le completano. Di fatto, pur nell’equilibrio compositivo, è l’attrito tra lo stato di possibilità e la menzogna che regola l’universo di queste opere; perché anche qui, come per Majakovskij, «sordamente./ L’universo dorme,/ poggiando sulla zampa/ l’orecchio enorme con zecche di stelle»[5]. Solo che nei quadri di Ionda l’allegoria si allarga, si fa inevitabilmente più complessa; alle zecche di stelle si uniscono altre immagini ricorrenti, le fitte corone di chiodi, i chiodi stessi a cascata, le tracce di una scrittura che si sgretola, le teste ridotte a due dimensioni. Ma questo ormai è un universo che non ha più tempo di dormire sulle sue melanconie: le zecche di stelle, i chiodi, le corone, i lacerti di scrittura, le teste schiacciate non sono più sulla soglia della comprensione, non sostano più sul dubbio dell’intenzione; hanno già oltrepassato l’orecchio, e ormai si fondono senza scandalo alcuno con la pasta dell’universo stesso; con il grande universo che forma l’orizzonte del cielo, e che è poi anche il nostro universo interiore, il nostro buio consumato dal chiarore e dai sedimenti di una civiltà di stelle spezzate, chiodi puntuti, linguaggi calcificati. Il nodo che coglie l’arte di Ionda è che il cielo rovesciato è adesso fuori di noi e dentro di noi, che l’universo delle cose è adesso una condizione reversibile: la soglia scompare, le zecche di stelle non insanguinano più perché sono esse stesse tutt’uno con il sangue che irrora e corrode le vene. La scommessa è allora trascinare fuori, per come è possibile, le immagini di una condizione che ci imprigiona anche dal di dentro; è strappare dall’incantamento ideologico in cui sono avvolti i discorsi di un intero mondo di cose e di parole, dare concretezza plastica e intellettuale a ciò che resta della menzogna. Sì, perché anche la menzogna tende a sparire dal nostro universo, inglobata al nostro sangue nel falso bagliore di resti di stelle; e se scompare la menzogna scompare la verità; e con la verità scompare l’uomo preso com’è in una realtà granitica, acceso da una eteronomia che lo abita, lo circonda, lo consuma.
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È questa erosione, è questo essere divorati dal di dentro e dal di fuori che cattura l’intelligenza di Ionda: è il tentativo di riconsegnare, almeno nei linguaggi dell’arte, l’uomo alla sfera dell’umano. O meglio, è il tentativo di riconfigurare, attraverso l’arte, quella complessa tensione affettiva, psicologica e intellettuale che genera gli spazi dove una condizione umana, piantata nel fango della sua storia, si articola a civiltà, dove la vita, pur priva di senso e trascendenza, conquista la sua dignità di fronte alla barbarie. In una parola è il tentativo di ricreare una tensione di sacralità intorno all’uomo, alla sua vita, alla sua figura; ritrovare quei riti, quelle interazioni, quella cultura di condivisione e di conflitto che la nostra civiltà dominata dal mercato sta silenziosamente cancellando. Come sta minando la forza delle parole, sempre più cooptate e assorbite dal chiacchiericcio crescente e dall’insormontabile rumore di fondo, come sta esaurendo il potere delle immagini agglutinate in un reticolo di colori, di forme, di retini ormai quasi indistinto. Ed è proprio dalle immagini che si muove Ionda, cercando di strapparle in qualche modo da questo indistinto, che è non solo indistinzione culturale, è anche oblio affettivo, intellettuale, appunto annientamento umano. È contro l’indistinto allora che combattono le sue immagini che cercano a tutti gli effetti di ricostruire una sacralità quotidiana, rubando appunto ai quotidiani le immagini di figure annullate nella riproduzione seriale, disperse nell’esplosione dei retini: immagini che egli dilata ancor di più, ma che nell’esplosione portata al limite trovano definizione, in un certo senso, riconsegnando la figura trattenuta dall’immagine alla dimensione del tempo umano, della nostra storia attuale. E tuttavia l’artista, che pure usa l’immagine retinata della riproduzione tipografica, la ingrandisce, la fotocopia, la ricolloca, non segue il percorso della pop art; al contrario, la sua è un’arte anti-pop. Ma non perché sia animata da una qualche rivincita di aristocrazia estetica, o ancor meno perché gli sfugga il principio cardine che guida le esperienze pop, e cioè che è il mercato che la fa da padrone in ogni forma di comunicazione e l’arte stessa non si distingue più dalla condizione di qualsiasi altra merce; no, a essere diversa è la direzione del viaggio, è la consapevolezza che non è nell’arte la soluzione, né in positivo né in negativo: la soluzione è nella riconquista, anche attraverso l’arte, di uno spazio di coscienza o di soggettività. L’arte torna a essere insostituibile come mezzo espressivo, perché non si sostituisce con i suoi simulacri estetici al pensiero e alla vita, al contrario, li alimenta e li contesta.
Ma la contestazione in questo caso non è astratta, si concretizza nel linguaggio stesso che Ionda si fabbrica opera per opera, quando ingrandisce a dismisura il retino dell’immagine, lo incolla sul legno, lascia macerare la carta della fotocopia nell’olio di lino, aspetta che la tavola imbevuta e appiccicosa trattenga il toner, l’inchiostro della fotocopia che è un po’ traccia di ciò che era l’immagine, un po’ documento materiale di un mondo e della sua metamorfosi chimica. È in questo processo di estrazione che l’immagine ritorna immagine; si isola, acquista un carattere proprio, articola un discorso che sfida il nostro rumoroso muro di afonia. E insieme si arricchisce con gli interventi allegorici dell’artista, che incastona le sue stelle d’alluminio, le zecche spuntate, dissemina i suoi chiodi che rotolano come pietre, le sue corone che si annodano come rose di metallo. È qui che l’immagine si stacca dalla sua realtà di cosa riprodotta e si affaccia al terreno del pensiero, entra nel mondo dell’allegoria: ognuna di queste immagini estratte riesce nell’impresa di essere al tempo stesso documento di sé, cioè di qualcosa che ha partecipato del mondo, e discorso che la trascende, cioè discorso sul mondo che la contiene e che l’ha contenuta. Ma anche qui il processo non è astratto, non prescinde dalla natura materiale dell’opera, dalla dinamica artigianale e manipolatoria della creazione: è il supporto di legno imbevuto d’olio, o ancor di più il legno immerso nell’olio delle teche, che rende possibile l’impresa, che regala soggettività materica a tutta l’operazione di risemantizzazione dell’immagine. Senza la solidità delle cose il pensiero gira a vuoto, senza una materia estetica l’arte si limita alle idee astratte, si condanna all’infinita ripetizione di sé o dell’ideologia che la mantiene. «Senza pietre non c’è arco»,[6] sentenzia laconico il Marco Polo di Calvino. Ecco, l’arte di Ionda riunisce l’arco e le pietre; collega la soggettività al disegno del pensiero. O meglio, distingue la soggettività delle cose dalla presunta soggettività del pensiero, che troppo spesso rischia di essere assorbito dentro la legge che lo legittima e in definitiva lo annulla. È qui che a saper leggere queste opere si intravedono due forze in conflitto, ma solidali: la lotta per emergere di un pensiero della soggettività, e il bisogno di singolarità che emana dalle cose, il bisogno di soggettività di cui sono documento le immagini recuperate. Questa è la sfida dell’arte di Ionda, strappare all’indistinto la carica propria di ogni singolarità; sottrarre alla menzogna, e alla lusinga dell’identità dei nostri linguaggi, l’alterità radicale di ogni esperienza, di ogni oggetto, di ogni pensare preso nell’istante del suo accadere.
È questa ricerca di singolarità che si struttura come Leitmotiv formale; e che si esprime nelle tavole segnate dal toner, nelle tele dipinte, nelle stratificazioni delle serigrafie, nell’alluminio smerigliato. È la risposta a questa erosione profonda, quella che si cerca nella serie di ritratti di Libertà provvisoria, e che si precisa nel tentativo di recuperare in qualche modo alla pittura la figura, o ciò che ne resta. È per questo che le tecniche si moltiplicano ma inseguono sempre quel nodo di problemi; e che a volte le stesse immagini quotidiane invece di essere sovrapposte al legno sono riportate sulla tela o sulla carta mediante una vera e propria riscrittura, in una sorta di esplosione calligrafica che ne riconfigura il corpo basculante e inafferrabile. È l’invenzione di una nuova sintassi dell’immagine; una diversa declinazione della sfida all’indistinto per riconsegnare l’immagine e ciò che trasporta, non all’arte, ma alla socialità dell’esperienza e del pensiero. E in fin dei conti non è altro che una riscrittura dell’immagine, una invenzione di sintassi anche quella che accade quando la traccia materiale dell’inchiostro si deposita sulla tavola. È la materialità della traccia, è l’interferenza con la sostanza del supporto che creano la scrittura, come accade con il miracolo chimico della pellicola, e con la forza tattile dell’impressione fotografica, forse la più potente delle scritture inventate dall’uomo moderno. Ed è proprio questa sintassi rinnovata e singolare che permette alle immagini di ambire anche a ciò che non sono, di concretizzarsi in metafore, di alludere a condizioni: è da qui che possono nascere senza insospettire (senza giocare sulla equivoca facilità dell’allusione) figure dal forte richiamo metaforico; da qui possono uscire le deposizioni, gli urli, le processioni di emarginati (a indicare il nostro attuale quarto stato), tutte espressioni profonde di condizioni concrete di disagio, di dolore, di violenza di un’intera civiltà.
E tuttavia il discorso sulla figura che Ionda costruisce nelle sue ultime opere, quelle che danno il titolo alla mostra, è complesso e difficile da afferrare: la figura è allo stesso tempo sedimento, traccia di un mondo che ha trasformato l’uomo in linea, in immagine ridotta al minimo delle dimensioni, ma anche sforzo di recuperare tanto le dimensioni dell’uomo al mondo, quanto, soprattutto, le dimensioni del mondo all’uomo (non è un caso che alla figura egli arriva dalle forme stilizzate delle stelle decapitate, che gradualmente si rivelano tronchi umani, e allo stesso tempo attraverso un’estrapolazione di forme compatte dall’immagine fotografica, e non più dal retino tipografico). L’Ecce homo XXI di Ionda non è rivolto solo all’uomo, ma anche al mondo delle cose, e alle forme con cui esso pensa l’uomo. Perché ormai sempre più spesso è il mondo che ci pensa; è la realtà integrale che viviamo che sostituisce le sue dinamiche di pura operatività al pensare e al vivere umano: in un mondo liberato delle verità e dalle menzogne, scrive Jean Baudrillard, le cose «hanno perduto ogni illusione e sono divenute immediatamente e totalmente reali, senz’ombra, senza parole».[7] E proprio dentro la dinamica di un mondo risolto nella sua opacità operativa si muovono le figure di Ionda, perse nel loro passeggiare irrelato tra le stelle. Ma a passeggiare non sono altro che figure di persone senza parola e senz’ombra, irrimediabilmente modellate e abitate da ciò che non sono. Abbandonate nello spazio, ma contornate dalle spie allegoriche delle stelle, dei chiodi, delle scritture morte, sono però figure che in qualche modo vogliono vivere, che sono immobili ma che mettono in moto una qualche forma di cammino. L’artista stesso è figura in cammino con queste composizioni che a volte nascono quasi come pittura serigrafica, dove strato su strato (colore su colore, spessore su spessore) si dipinge un universo sospeso su se stesso. È con questa pittura non pittura, con questo sommarsi di manualità, gesto, riproduzione meccanica, che l’artista afferra il nodo, e incontra lo spessore senza volume della sua arte, e insieme il volume senza spessore della nostra condizione di uomini. Reinventa, in un certo senso, la possibilità di situarsi, di riconoscere per via di materia e non d’ideologia la condizione muta dell’uomo presente. Ci vogliono queste silhouettes schiacciate dalla loro adimensionalità materiale e concettuale (le due dimensioni compatte del colore appartengono solamente all’ineliminabile finzione pittorica) per raccontare la storia di una soggettività che non trova spessore né movimento; che non incontra una dimensione di esistenza neppure nel divenire di sé e delle cose. Sembra di rivivere prerennemente il finale beckettiano di En attendant Godot, dove i due personaggi dicono di andare via ma non si muovono («Vladimir Alors, on y va ?/ Estragon Allons y. Ils ne bougent pas»): le silhouettes senza dimensioni non raccontano altro che un muoversi senza spostarsi, non rinviano ad altro che a un situarsi senza occupare realmente lo spazio. Le promenades di Ionda hanno la forza esplosiva di cogliere fulmineamente una verità estrema del nostro vivere comune, l’indisponibilità profonda all’altro; quello che ci troviamo di fronte e quello che sempre più scompare dentro di noi; quello stesso altro che sembra negato dalla molteplicità di piani e di prospettive che si sovrappongono senza toccarsi; che noi stessi neghiamo nei nostri quotidiani incroci senza incontro.
Sono questi incroci senza incontro, tra figure sospinte dal bagliore della pura operatività, che illuminano l’orizzonte del soggetto del secolo appena iniziato: ed è nell’incapacità all’incontro, nell’atrofia relazionale e affettiva, nella scomparsa del desiderio, se non come coazione, che si manifesta una vera e propria morte di ogni contenuto di scambio simbolico; è nella paura della vita ormai, e non più nel timore della morte, che si sviluppa un bisogno totale di simulazione. Quella che oggi occupa il soggetto è una tensione a scivolare verso una vita-senza-vita-e-senza-morte, una vita appunto spesa esclusivamente nel territorio della pura operatività. E chissà che forse non si sia avverata in negativo l’utopia di Antonin Artaud di un corpo senza organi, di una intelligenza in-organica e fuori da ogni divisione funzionale, se è sempre più vero che si vive senza esistere: «– Ils vivent et n’existent pas./ Pourquoi?/ – Pourquoi? Il faut faire tomber la porte/ Qui sépare l’Être d’Obéir»;[8] questo è il punto, il nodo che gira intorno alla possibilità di “buttare giù la porta che separa l’essere da obbedire”, di riconoscere la soglia tra ciò che siamo e ciò che siamo nel e col mondo. Ecco la scommessa filosofica di Ionda: ricostruire, per quello che può fare l’arte, una idea di soglia, una possibilità di distinzione. Ed ecco perché queste figure senza dimensioni non possono che nascere da un tentativo di interfacciarsi con la realtà, o con ciò che di essa rimane nelle nostre mani: è da un insieme di fotografie il cui orizzonte è come sospeso sul deserto del mare che Ionda compatta le silhouettes senza spessore. Tanto per ribadire che non si tratta di una operazione astratta o di una stilizzazione, ma di una manipolazione del dato reale, una sorta di condensazione, una specie di precipitato di sostanze; per rendere quel dato reale, per quanto melanconico, la spia di una soglia possibile, il concentrato di una possibilità. Una possibilità che ora risiede addirittura dentro la matrice stessa, quando le figure deambulano nella traccia fotografica di uno sfondo di realtà offuscata che è anche resoconto della tragedia, della mutilazione; una possibilità che ora metafisicamente si abbandona alle silhouettes nello spazio smarrito tra stelle spuntate e chiodi in caduta libera, quello spazio così segnato da discorsi interrotti. Queste figure, nel loro condensarsi, riescono a tenere insieme il dato reale dell’esperienza (appunto le tele dei Bagnasciuga) e la proiezione verso lo sconosciuto del pensiero (le varie promenades tra le stelle). Proiettili lanciati nel vuoto che provano insomma a ritrovare una traccia di quel rapporto interrotto tra le stelle e le costellazioni, tra le cose e le idee. Un rapporto che si rende evidente quando le figure senza dimensioni acquistano la tridimensionalità dell’alluminio, e i tronchi schiacciati assumono uno spessore paradossale: è adesso – quando gli spazi che i nostri corpi concretamente abitano si mutano anch’essi in una volta di stelle cadute tra figure che procedono senza vedersi – che accade il miracolo di questi volumi senza dimensioni, dove le cose e le idee entrano in risonanza nell’illusione dell’incontro.
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È in questo dare spazio all’illusione che Ionda ci fa rialzare lo sguardo verso l’alto, che ci offre un’opportunità di incontro al di là del bagliore. Ma le nostre città, in ogni caso, sono sempre lì, con le strade illuminate, con le vite proiettate nelle loro prospettive orizzontali. È questo il nostro esserci, è così che ci siamo, come raccontano i titoli delle sue ultime opere: sperduti senza costellazione, ammutoliti da una luce che non vediamo, schiacciati tra l’incudine di chiodi e di zecche di stelle che ci abitano e che ci sormontano. Eccoci, come siamo. Siamo Smarriti nello spazio. Smarriti. Eppure perdersi sarebbe il primo passo per ritrovare qualcosa, se a perdersi è l’orientamento profondo che ci lega ai nostri protocolli, se è la luce dell’identità e della sua barbarie, se è la violenza che il pensiero nasconde e legittima; se è tutto questo che noi smarriamo saranno i nostri spazi che cesseranno di esistere, ma esisterà un vuoto per ripensarli. Ed è nel vuoto sconosciuto che si espande il cosmo come un’opportunità, è nel vuoto che riprende forma lo spazio. Sarà solo in uno spazio da rimodellare e in un tempo da reintessere che anche noi, chissà dove e chissà in che forma, ri-usciremo a riveder le stelle. [1] György Lukács, Teoria del romanzo, Garzanti, Milano 1974, trad. it di F. Saba Sardi, ma robustamente ritoccata da me. [2] F. Ionda, Franco Ionda, Motta, Milano, 2001, p. 22. [3] I. Calvino, Le città invisibili, in Id, Romanzi e racconti II, Mondadori, Milano 1992, p. 408. [4] V. Majakovskij, La nuvola in pantaloni, in Id., Opere vol. 6, Editori Riuniti, Roma 1980, trad. id. B. Carnevali, p. 324. [5] Ibidem. Queste parole sono il finale de La nuvola in pantaloni. [6] I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 428. [7] J. Baudrillard, Violenza virtuale e realtà integrale, Le Monnier, Firenze 2005, P. 3. [8] A. Artaud, L’Arve et L’Aume, in Humpty dumpty di Lewis carrol, Einaudi, Torino 1993, p. 49.
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